Dalla Peste di Camus al coronavirus tra le metafore della nostra limitatezza umana - Emmetag

“Il coronavirus è anticapitalista (caduta della borsa), ama l’oro (+ 8%), è ecologista (meno aerei nel cielo), misantropo (odia le persone che parlano tra loro), puritano (impedisce alle persone di toccarsi)”, sostiene Pivot. Esso ha sconvolto l’ordine costituito mondiale e rivelato il rovescio della medaglia della c.d. globalizzazione, ma il mondo ha conosciuto sempre epidemie, tragiche e devastanti assai più che quelle di oggi: la peste (uccise milioni di persone), la spagnola (nel 1918/19, uccise 50 milioni di individui). Arte, letteratura, storia possono essere guida e conforto: La peste di Azoth, dipinto di Poussin, del 1631, a Louvre oppure La peste, di Camus, romanzo letto, la prima volta, da liceale che mi sembrò una potente metafora e tanto più mi appare tale adesso. Per Camus, la peste del tempo era il nazionalsocialismo, ma il libro è contemporaneo in quanto allegoria in ordine alla precarietà e fragilità della condizione umana. L’economia è sotto attacco, la politica non sa cosa fare: e ciò prova che la “hybris”, di greca ascendenza, genera talvolta reazione da parte delle forze della natura.
L’attuale società occidentale, opulenta, consumistica, tecnologica, ignora il dolore, la sofferenza, la miseria, la fame, la guerra. Pensavamo essere “onnipotenti”, “invulnerabili”, con la tecnica che ci assiste dall’inizio alla fine delle nostre vite. Il virus ha s-velato la nostra provvisorietà, finitudine, limitatezza, velate, coperte, appunto, dalla tecnica. Per questo, il virus determina “angoscia”. I nostri avi, ben temprati alle pestilenze, guerre, violenze, non si sarebbero fatti piegare dal covid-19, né soprattutto vincere dalla psicosi di massa.
Va, quindi, distinta la “paura” dall’ “angoscia”. La paura, quale forma di difesa dell’uomo, riguarda un oggetto determinato; ad es., vedendo del fuoco, fuggiamo, e fuggiamo per difenderci, essendo il fuoco un oggetto determinato. I bambini – come noto – non hanno paure perché in-coscienti, rispetto al pericolo o danno. L’angoscia, invece, concerne un oggetto indeterminato. E, nel caso del coronavirus, sarebbe più appropriato parlare di angoscia collettiva poiché non esiste un oggetto determinato e non si sa da dove, da chi e quando esso potrebbe arrivare. Ad es., se si spegne la luce della stanza del bambino ancor prima che si addormenti, allora inizia a strillare perché l’ambiente circostante diviene, per lui, “indeterminato”; e, appena arriva la mamma e accende la luce, si calma. Il concetto di “morte”, dunque, è stato esorcizzato ed allontanato nella nostra epoca, epoca, appunto, della tecnica, tanto che appena la morte compare, si prova angoscia. I Greci, invece, prendevano molto seriamente la morte, ritenendo che non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché, in fondo, si deve morire.
Tuttavia, noi rivendichiamo la Verità, quasi non fosse già stata “filosoficamente frammentata” dai procedimenti cognitivi propri di ciascuna corrente di pensiero. Esigiamo la Verità Assoluta dalla politica che, essendo, per antonomasia, il luogo della mutevolezza, modulata, volta per volta, dall'ossessione del consenso, non può elargirne alcuna. Ci rivolgiamo al Verbo della Scienza che però non dispone di teologie da dispensare ad ampio raggio giacché deve ricorrere costantemente a verifiche empiriche che corroborino e rendano solida l'ingegneria delle ipotesi. Ed allora? Sopravvive, per dirla con Edgar Morin, "l'incerto fondamentale che si acquatta dietro ogni certezza locale. La Ragione s'interroga, s'inquieta. La Logica appare pervasa da crepacci". Insomma, "un mare di fango semantico su cui fondano le palafitte del Sapere" (Mugur-Schachter), al di là di qualunque Principio Primo. E noi siamo a bordo del nostro tempo fluttuante. Ci salverà, come afferma Galimberti, la "phronesis" di Ulisse, da intendersi come capacità di individuare il centro di equilibrio tra forze contrarie?
Del resto, la vita riassume in sé sempre bellezza e bontà che eccedono ogni nostra capacità cognitiva e percettiva, trascendendo lo spazio e il tempo in cui siamo “gettati”. L’uomo è per la vita.
E tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare: solo amando la vita sino alla fine, c’è speranza di futuro per tutti, principalmente adesso, in questa dura e incerta circostanza che caratterizza l’intera umanità.

parole di Antonio Calicchio

rappresentazione di  Nicolas Poussin, La peste di Azoth tratta dal web