MARINA DI CAMEROTA: A MARE PER AMARE - Emmetag

Passeggi, assorta nei fili intricati dei tuoi perché, con i sandali in mano. La spuma marina ti solletica i piedi, il tuo fugace passaggio è segnalato dalle orme impresse nella battigia. Il vento ti scompiglia i capelli e sembra richiamare la tua attenzione. Alzi lo sguardo: dinanzi al mistero del mare, immersa nell'incanto senza tempo di Marina di Camerota, rimani inerte. I pensieri restano sospesi, la parvenza d'infinito ti cattura: nella tua mente può albergare soltanto lo stupore. L'inaspettato ha sedotto i sensi. Ti siedi, il paesaggio chiama a farsi carico di ogni promessa di bellezza: sorseggi ogni istante, lo fai tuo. 

Sopraggiunge il tramonto e i colori giocano tra di loro, si rincorrono e ti avvolgono: il cielo cambia l'abito più volte e il sole scompare dietro l'isola delle Sirene. L'orizzonte torna piatto, ma questa meraviglia consente alla vita di incresparsi, di trovare un senso.

Le gambe ti conducono, poi, rapite, al porto. Il molo, con i numerosi ormeggi, ti chiama. Un pescatore si ritira: occhi limpidi e azzurri con il mare incastrato dentro, sovrastati da folte sopracciglia, vestiti consumati e impregnati dell'odore della salsedine e delle alghe; la distesa marina non lo abbandona nemmeno sulla terraferma: la sua luce gli resta addosso, nei capelli ispidi e arruffati, nelle sfumature della voce. Le rughe ingentiliscono il volto, che s'increspa in un sorriso sdentato. Non percepisce la stanchezza: vive a mare, per amare, per sentirsi vivo. Le mani ossute e percorse da cicatrici si adoperano - sapienti - per districare rapidamente le reti e deporre i galleggianti; soddisfatto, recupera le numerose cernie e dentici pescati, suo bottino quotidiano.

Ti rivolge, poi, la parola: ti racconta un mito, quello in cui la sua terra si riconosce da secoli. Raccontare lo aiuta nella delicata arte di sottrarre alla polvere le cose. Con voce greve, parla delle peregrinazioni di Palinuro, nocchiero di Enea, che – solcando, in una notte di plenilunio, le docili acque dell'attuale basso Cilento - si innamorò perdutamente della ninfa Kamaraton e del suo canto. Lei – ritrosa – lo respinse. Venere volle punirla: quando la creatura marina s'accinse, con grazia, a tuffarsi nelle profondità del mare, gli arti s'intorpidirono, i seni armoniosi si fecero rocce e il volto si pietrificò nell'istantanea di un sorriso. La mutò in un promontorio scabroso, dove oggi sorge Camerota. Palinuro, ammaliato dalla bellezza della divinità acquatica e nel tentativo di raggiungerla, annegò. Da allora la nuda roccia di Kamaraton è costretta a mirare – in eterno - il mare che non avrebbe più raggiunto, lì dove perse la vita l'uomo che più l'aveva amata.

Al termine del racconto, il pescatore tace. Ha gli occhi lucidi, ma non si nasconde: è in questa fragilità che risponde alla vocazione di essere uomo. Forse, in questa storia si riconosce e rivive attimi lontani - perché, in genere, si racconta o si scrive per qualcuno e con in testa qualcuno - o è il potere suggestivo della parola a suscitare le sue lacrime. Rivolgi, poi, lo sguardo al cielo e – si sa - dove si perde l'occhio, anche il cuore resta invischiato: alcune stelle sono percorse da baluginii, come se fossero attraversate da pensieri improvvisi. Ti concentri sul porto, respiri l’aria salmastra e ti sembra quasi di vedere Palinuro al timone, ignaro della sua sorte, con lo sciabordio delle onde a fargli compagnia.

parole e scatti di Rosanna Caiazzo